Il racconto
L'ex magistrato che affrontò gli americani a Sigonella. «Io applicai la legge, ma prevalse la ragione di Stato» - IL RACCONTO AUDIO
La sera del 10 ottobre 1985 Roberto Pennisi, originario di Acireale, era il pm di turno alla Procura di Siracusa, sotto la cui competenza ricadeva l'aeroporto di Sigonella. E suo malgrado, si ritrovò testimone di un pezzo di storia

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«Oggi posso dire di condividere la ragione di stato che quella notte dettò alcune scelte delle autorità italiane, ma io ero un magistrato e agii solo secondo la ragione della legge». La sera del 10 ottobre 1985 Roberto Pennisi era il pm di turno alla Procura di Siracusa, sotto la cui competenza ricadeva l'aeroporto di Sigonella. E suo malgrado, si ritrovò testimone di un pezzo di storia. Originario di Acireale e all'epoca da poco entrato in magistratura, fu lui ad affrontare il caso dell'aereo egiziano partito dal Cairo e diretto a Tunisi con a bordo i dirottatori della nave Achille Lauro.
«In quei giorni mi stavo occupando della prostituzione a Ortigia, che nel 1985 non era certo l'Ortigia di oggi. Quella notte avevo appena chiuso gli occhi quando mi arrivò una telefonata».
Cosa pensò?
«Il solito omicidio. Invece mi dissero: "All'aeroporto militare italiano di Sigonella abbiamo i sequestratori dell'Achille Lauro". Mi sembrò uno scherzo».
Quando arrivò che situazione c'era?
«Una baraonda. Il personale militare agitatissimo. L'aereo della Eygyptair era circondato dai nostri militari. C'era buio e molto caldo. C'era il portellone aperto e ogni tanto ne veniva fuori una figura con la canna di un fucile mitragliatore».
Fu testimone dell'immagine del doppio cordone di militari? Quelli americani e quelli italiani?
«Quella immagine io non la vidi. La storia racconta che c'erano anche i militari americani, ma non si vedevano. Se ne percepiva la presenza attraverso i movimenti nella vegetazione».
A quel punto cosa fece?
«Il comandante della base mi spiegò che l'aereo egiziano era stato dirottato dagli americani. Che c'erano in corso trattative tra autorità italiane, americane ed egiziane. Che gli americani volevano prendere in consegna i sequestratori. Cosa che le autorità italiane non intendevano fare. È importante precisare una cosa, però. I reati ipotizzati erano di competenza dela procura di Genova, da dove la nave era partita e dove i quattro terroristi si erano imbarcati. Io ero il magistrato di turno per svolgere gli atti urgenti. Per prima cosa chiesi al procuratore aggiunto di Genova se avessero intenzione di venire a Sigonella, mi dissero di procedere».
Il destino dei quattro terroristi passava da lei.
«Il loro destino era nelle mie mani. Il primo problema era prenderli in consegna e dichiararli in stato di fermo. Volli subito parlare con il comandante americano. Fu una conversazione garbata. Mi disse che aveva ordini di prendere in consegna i responsabili dell'omicidio del cittadino americano a bordo, Leon Klinghoffer. Risposi che ormai era questione di competenza della magistratura. E che qualunque accordo fosse stato preso, per me non valeva. Per me valeva la legge».
Loro come reagirono?
«Eravamo nel 1985 e negli Usa vigevano le regole dello stato di diritto. Forse ora un po' meno, ma all'epoca c'era un grande rispetto della legalità. Il generale prese atto, si appartò e comunicò ai superiori. Mi disse che di lì a poco avrebbe fatto andar via i suoi».
In questa fase ebbe contatti con la parte politica?
«Nelle 48 ore di mia permanenza a Sigonella non ebbi nessun contatto con l'autorità politica italiana. Poi ho scoperto che contatti erano stati presi con l'autorità giudiziaria di Genova. Comunque di lì a poco avvenne la prese in carico dei quattro».
Che persone si trovò davanti?
«Erano giovani, non avevano paura, mostravano fierezza per ciò che avevano fatto. Non riuscii a trattenermi dal dire: "Non vi vergognate? Voi giovani armati a uccidere una persona paralitica, anziana che era in vacanza con la moglie?" Lo dissi con cattiveria. E lui con calma mi rispose: "Non puoi capire, perché tu non hai avuto fratelli, sorelle, genitori massacrati nei campi di Sabra e Shatila". Pochi anni prima erano successi dei massacri di palestinesi a opera dell'esercito israeliano. Li presi in consegna e pensai: "Oh, ho finito"».
E invece?
«Stavo per autorizzare la partenza dell'aereo quando fui avvicinato dal rappresentante dell'Fbi. Mi disse che a bordo c'era un altro responsabile, il capo dei quattro: Abu Abbas. Era il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, una fazione dell'Olp facente capo ad Arafat. I quattro ammisero che era il loro capo e che avevano operato eseguendo i suoi ordini. L'uomo dell'Fbi aggiunse che c'erano intercettazioni in possesso di tutti i servizi segreti dei Paesi del Mediterraneo, compresa l'italia. Tutti sapevano tranne io».
Lei cosa fece?
«Cercai di mettermi in contatto con le autorità italiane, ma negavano l'esistenza di queste registrazioni. Chiesi agli americani di mettermele a disposizione e nel giro di un paio di ore arrivarono. A quel punto non sbloccai l'aereo. Volevo accertare la presenza di Abbas, ma anche che i quattro soggetti consegnati fossero effettivamente i responsabili. Avevo bisogno di un riconoscimento. Chiesi che il comandante dell'Achille Lauro venisse accompagnato a Sigonella. Ma nel frattempo la nave era stata sequestrata dalle autorità egiziane come ritorsione al sequestro dell'aereo. E lui non poteva abbandonare equipaggio e passeggeri. Ancora una volta mi vennero in aiuto gli americani che mi proposero di portare a Sigonella la vedova di Klinghoffer, visto che lo avevano ucciso davanti a lei. Era una furia. Non posso dimenticare il dito puntato e i quattro sputi che accompagnarono l'identificazione».
Rimaneva la questione Abu Abbas
«Preparai un'irruzione delle forze speciali sull'aereo. Ero quasi pronto quando arrivarono i miei colleghi di Genova. Non ne sapevo niente. Vennero accompagnati da un aereo della Presidenza del consiglio dei ministri. Fui molto contento perché dopo 48 ore ero stanco. Consegnai tutto e spiegai che c'era un'altra persona che bisognava arrestare».
Abbas non fu fermato.
«Fu autorizzata la partenza dell'aereo con a bordo Abbas. Poi la Corte d'assise di Genova lo ha condannato all'ergastolo per l'omicidio e per il sequestro dell'Achille Lauro. I quattro terroristi furono condannati a pene minori».
Lei non andò su tutte le furie?
«Oggi non mi sento di sindacare la scelta delle autorità politiche italiane. Fare andare via Abbas fu una scelta dettata dalla ragione di stato. Ritennero così di salvaguardare l'Italia da attacchi terroristici. Dieci anni prima c'era stato un attacco dei terroristi palestinesi a Fiumicino ed era morto un finanziere, Antonio Zara, di 20 anni. Io però non potevo applicare la ragione di stato, ma la ragione della legge. Qualcosa di simile è successo nei giorni d'oggi con Almasri, mandato via pur essendo colpito da un provvedimento restrittivo dall'autorità giudiziaria intenazionale».