Il caso
Silenzi spezzati a Gela: ecco i retroscena del femminicidio di Veronica
L’esame autoptico parla di grave trauma al cranio e al torace

Era il 17 settembre, una notte come tante a Gela. Le strade del centro si erano fatte quiete, le finestre chiuse, i pensieri raccolti nel sonno. Ma dietro una porta, in un’abitazione anonima, si consumava una tragedia che avrebbe lasciato un’intera comunità sgomenta.
Una donna di 64 anni, Veronica Abaza di origine rumena, è stata trovata senza vita. All’inizio, tutto sembrava confuso, quasi casuale. Le prime testimonianze parlavano di un rientro in casa in stato di ebbrezza, di una richiesta d’aiuto per camminare, di un corpo che si era adagiato sul letto per non rialzarsi più. Ma il silenzio che avvolgeva quella stanza non era pacifico. Era il silenzio della violenza.
I Carabinieri del Reparto Territoriale di Gela, intervenuti con prontezza, hanno da subito percepito che qualcosa non tornava. Le ecchimosi sul corpo, i segni evidenti di percosse, le tracce lasciate da una furia cieca e brutale. Non era una morte naturale. Era un grido soffocato, un dolore che non aveva avuto il tempo di chiedere aiuto.
Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Gela, hanno scavato a fondo. E hanno portato alla luce una verità che fa male: dietro quella porta si nascondeva una storia di abusi, di sopraffazione, di paura. L’uomo arrestato, un 40enne connazionale della vittima, Lucian Stan, era già noto per la sua indole violenta. Più volte, in passato, aveva causato lesioni alla donna. Ma lei non aveva mai denunciato. Per timore. Per amore. Per quel legame affettivo che, invece di proteggerla, l’ha condannata.
L’autopsia ha parlato chiaro: “Grave politrauma cranico-encefalico e toracico addominale chiuso”. Parole fredde, tecniche, che nascondono una realtà atroce. Pugni, calci, urti contro superfici rigide. E poi quel dettaglio che toglie il fiato: l’aggressore che sormonta la vittima, schiacciandola, annientandola.
Il Giudice per le Indagini Preliminari ha accolto la richiesta della Procura, disponendo la custodia cautelare in carcere. Un passo necessario, ma che arriva troppo tardi per chi non c’è più.
Resta il dolore. Resta la domanda che non trova risposta: come è possibile che, ancora oggi, si muoia così? Resta il dovere di ricordare che dietro ogni volto c’è una storia, e che nessuno dovrebbe mai sentirsi solo nel chiedere aiuto.
La giustizia farà il suo corso. L’indagato, come previsto dalla Costituzione, è presunto innocente fino a condanna definitiva. Ma intanto, una donna ha perso la vita.