L'intervista
Il paradosso dell’eccesso: quando troppi turisti diventano un problema. «Meno folla e più valore per i territori»
Angelo Pittro, direttore di Lonely Planet Italia, invita a ripensare il turismo come esperienza consapevole, coinvolgendo le comunità e puntando a qualità della vita e autenticità dei borghi

Può un viaggio essere una terapia? La domanda tocca un punto cruciale: oggi il turismo è percepito sempre più come una fuga dal burnout quotidiano, un rimedio rapido allo stress. «Bisognerebbe viaggiare di meno e viaggiare meglio - osserva Angelo Pittro, direttore di Lonely Planet Italia che abbiamo incontrato durante la quinta edizione del Marzamemi Book Fest che si è svolto nello scorso fine settimana nel borgo marinaro pachinese. - Questa moda di prendere un aereo per un weekend di qua e di là ha stufato. Non puoi pensare di risolvere tutto con una pillola, o con una vacanza lampo, che spesso è la risposta alla pressione del marketing territoriale».
Dalla metafora del viaggio come medicina si arriva subito a una diagnosi che riguarda la Sicilia e non solo: il paradosso dell’overtourism. Nelle stesse pagine di un quotidiano capita di trovare, accanto agli articoli che esultano per i record di arrivi estivi, quelli che raccontano le proteste dei residenti soffocati dalle folle. Numeri celebrati da un lato, emergenze dall’altro.
Per Pittro il problema è la mancanza di una visione sistemica. «Fino a quando ragioneremo solo in termini di numeri - troppi o troppo pochi - non ne usciremo. Forse bisognerebbe calcolare qual è il carico massimo che un territorio può sopportare. Stabilire che a Marzamemi ci possano essere un numero determinato di turisti, e non di più. Altrimenti i danni potenziali superano i benefici che ci si aspetta di ricevere. Invece di contare quanti sono, potremmo guardare quanto spendono. Meglio qualcuno in meno che però lascia più valore sul territorio. Oppure pensiamo a quante persone tornano: fidelizzare è più sostenibile che inseguire sempre nuovi arrivi».
C’è però un rischio, avverte: se si punta solo a guadagnare di più con meno turisti, il turismo diventa un lusso per ricchi. «Così perdiamo la sua dimensione democratica, e non sarebbe un buon risultato».
Il nodo, in fondo, è che questa non è un’industria come le altre. «Non stiamo stampando plastica o pezzi di ferro. Vendiamo noi stessi: la nostra terra, i nostri beni culturali, le nostre comunità. È un’operazione spericolata, anche se spesso si fa finta che sia semplice e indolore».
Dentro questo quadro, i borghi diventano un laboratorio cruciale. In Sicilia e nel resto d’Italia migliaia di piccoli centri sono già spopolati o rischiano di sparire. Qui il turismo può essere un’ancora, ma solo se accompagnato da una programmazione seria.
«Portare servizi in paesi minuscoli è antieconomico. Allora il turismo può aiutare, ma non basta dire: rimettiamo a posto la piazza, apriamo un ristorante stellato, organizziamo il DJ set al tramonto. Se invece di arrivare i mille turisti che servirebbero ne arrivano diecimila, si creano altri problemi, e alla fine qualcuno rimpiangerà persino l’assenza di servizi che si voleva combattere». La rigenerazione dei borghi non può ridursi a un’operazione di facciata o a un “prodotto per Instagram”. Servono politiche che riportino vita stabile nei paesi interni: artigiani, scuole, connessioni digitali, nuovi abitanti. «Il turismo può essere un innesco - spiega Pittro - ma non deve diventare l’unico scopo. Un borgo vissuto solo nei weekend o per tre mesi l’anno non è un borgo che rinasce».
Il tema non è soltanto economico ma politico, nel senso più ampio. Come costruire una visione che vada oltre i numeri e tenga conto delle comunità? «Se le strategie arrivano dall’alto, dal sindaco, dalla Regione, dal ministero, è sicuro che si sbaglia. Nessuno conosce meglio di chi vive in un luogo il suo equilibrio fragile. Solo coinvolgendo i residenti, anche chi non lavora nel turismo, si può immaginare un punto di equilibrio tra costi e benefici sociali» suggerisce lo stesso Pittro.
La questione torna in Sicilia, con una provocazione. «Alcune statistiche dicono che Ibiza da sola fa più turisti di tutta la Sicilia. Non so se sia vero, ma mi chiedo: è un bene o un male? Forse il fatto che qui non ci siano folle oceaniche protegge l’isola da certi eccessi».
Un patrimonio unico, insiste Pittro con l’autorevolezza dell’esperto, non solo in termini artistici e storici ma anche per la qualità di vita che restituisce a chi arriva.
L’idea di turismo sostenibile si riflette anche nel modo in cui Lonely Planet costruisce le proprie guide. «Il nostro lavoro - spiega Pittro - non è tanto selezionare i luoghi, ma gli autori. Sono loro, con la loro sensibilità, a filtrare e a proporre ciò che vale la pena vedere. Cerchiamo di dare voce a punti di vista diversi, perché oggi i lettori non sono più solo viaggiatori “zaino in spalla”. C’è chi cerca esperienze autentiche, chi gastronomia, chi cultura o natura. E dobbiamo parlare a tutti senza omologare tutto».
Un equilibrio delicato, tra riconoscibilità e identità. «Non vogliamo riempire le guide di locali costruiti per i turisti, tutti uguali, “fighetti” e senz’anima. Preferiamo luoghi che rappresentino davvero il territorio, anche nei suoi contrasti. E quando capita di segnalare un posto pensato per chi arriva da fuori, chiediamo sempre: racconta qualcosa di questo luogo o potrebbe essere ovunque nel mondo?».
Il futuro del turismo in Sicilia, allora, non si gioca soltanto sulle cifre degli arrivi o sulle classifiche internazionali. Sta nella capacità di bilanciare affollamento e spopolamento, reddito e qualità della vita, numeri e comunità. In una parola, coltivare: non solo i visitatori, ma la terra e chi la abita.