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L'INTERVISTA

Il fotografo Ferdinando Scianna: «Sciascia mi ha inventato. Non si può andare via dalla Sicilia, il passato è ineliminabile. Qui la donna è madre, madonna ma anche peccato»

L'artista di Bagheria, 82 anni, primo fotografo italiano a entrare nell’agenzia Magnum,  grande maestro dello sguardo conosce tutte le luci e le ombre della nostra Isola

Ombretta Grasso

04 Novembre 2025, 19:31

21:38

Il fotografo Ferdinando Scianna: «Sciascia mi ha inventato. Non si può andare via dalla Sicilia, il passato è ineliminabile. Qui la donna è madre, madonna ma anche peccato»

Conosce tutte le luci e le ombre della Sicilia. Il suo nero morbido scava la realtà, scolpisce le anime, illumina volti e luoghi. Sguardo chiaro che brilla, «mangiatore di vita», curioso del mondo e degli uomini, ammalia con la sua ironia, i suoi ricordi, la capacità straordinaria di condensare il mondo in un istante, in una metafora. Ferdinando Scianna, di Bagheria, 82 anni, primo fotografo italiano a entrare nell’agenzia Magnum,  grande maestro dello sguardo - al quale il regista Roberto Andò ha appena dedicato il bel film “Ferdinando Scianna, il fotografo dell’ombra” in questi giorni nelle sale, a Catania al cinema  King  - si racconta tra incontri e aneddoti punteggiati da grandi risate. A partire dalla scelta di diventare fotografo. come racconta nel docufilm. Ma che razza di mestiere è quello che «ammazza i vivi e fa resuscitare i morti»?, gli dice il padre, contrario a quel lavoro. A Bagheria il fotografo scattava le immagini ai morti per le lapidi e poi sopra disegnava loro gli occhi.

Che mestiere è questo?

«La vita è una guerra contro la morte, ma anche il suo corteggiamento. La fotografia è una curiosa invenzione che molto ha a che fare con la vita. Si dice “vieni qui che ti immortalo”. Ma nel momento in cui si crede di salvare un istante, la foto di fatto lo uccide perché il tempo non si ferma mai».

Cita un antropologo: «Soltanto se si ha un villaggio nella memoria si può fare un’esperienza cosmopolita».

«Quasi inevitabile. C’è una frase del Situazionismo che mi è rimasta impressa: da dove parli? È molto importante se parli dalla terrazza di un muezzin o dal palco di un predicatore, dalla piazza principale di un villaggio o dalla periferia. Quello dà un tono alla tua voce, fa capire da dove arrivi, chi sei».

Come ha incontrato la fotografia?

«I miei mi regalarono una macchina fotografica. Ero un ragazzo, al liceo ho iniziato a fotografare i miei compagni e soprattutto le compagne. Era una forma di seduzione, di rapporto con gli altri, e mi ha molto determinato. “Ne fai una anche a me?”, questo era il premio. La foto di una mia compagna di classe è finita sulla copertina di un libro inglese sulla storia della bellezza in Occidente. Una cosa che ha fatto molto ridere me e anche lei. Eravamo bellissimi, giovani. Qualcuno ha scritto che lo stile di Stendhal era scrivere “di colpo”. A un certo punto, mentre si fa una foto ci si preoccupa di come farla. In quel momento lì era l’ultimo dei miei pensieri, c’era una spontaneità assoluta. Picasso diceva: “Ci ho messo 60 anni per riuscire a reimparare a disegnare come quando ero bambino”».

Dall’incontro con Leonardo Sciascia nasce il primo libro “Feste religiose in Sicilia”. Lo scrittore è stato mentore, maestro, amico, padre?

«Tutte queste cose insieme e anche di più. La vita è una sequela di incontri, il primo con la madre, poi ci sono gli innamoramenti, le amicizie… Noi siamo fatti del tessuto di questi incontri. Leonardo, in un certo senso, mi ha inventato. Ero un ragazzotto ignorantissimo, pieno di furori, di fame di vita e di velleità e lui seppe vedere attraverso le mie foto cose che io manco sapevo».

La Sicilia è sempre fuga e ritorno.

«C’è una frase di Pirandello che dice: “Essere siciliani e andare via è quasi un sinonimo”. In migliaia sono andati via per sopravvivere, io l’ho fatto per seguire un sogno, qualcosa che lì non potevo fare».

Ma si va veramente via dall’Isola?

«Non si può andar via dal proprio villaggio. Si crede di andar via per desiderio, per rancore che però si mescolano a quei profumi, al tono di quelle conversazioni, a un certo ritmo delle stagioni. Mi è capitato, a Little Italy, di sentire signori che credevano di parlare siciliano ed era una mistura di americano simile a quei cannoli immangiabili che pensavano fossero come quelli che gli avevano raccontato i nonni. Anche loro non erano mai andati via, non potevano. Il passato è ineliminabile. Scopri che sei quello da cui sei andato via perché devi farci i conti tutti i giorni».

Le sue foto per Dolce e Gabbana agli esordi rivoluzionarono la moda.

«Non avevo mai fatto foto di moda, mi chiesero immagini ispirate alla donna siciliana. Non immaginavamo che avrebbero avuto tanta eco. La modella, Marpessa, è olandese, il padre del Suriname. E' diventata interprete del mio ricostruire il sentimento della donna nei luoghi stessi dove era nato. Per l’umanità maschile la donna è sempre centrale e in posti come la Sicilia la cosa è molto complicata perché la donna è madre, è madonna però è anche peccato, tutte cose insieme. Ciò la rende meravigliosa e irripetibile».

Nel documentario di Andò torna a Bagheria, e la strada dove è cresciuto diventa un palcoscenico di vite.

«Un mondo molto difficile da far capire perché è cambiato in modo velocissimo. Un paese vitale e mostruoso, dove c’erano bellezza, eleganza, cultura ma anche soprusi, violenza, mafia».

Le sue foto narrano con le ombre. La luce del Sud ha un cuore di tenebra.

«Noi del Sud sappiamo che il sole può essere pericoloso, può dare alla testa, essere violento.  Il sole mi interessa perché fa ombra. L’ombra è un destino, diventa metafora di una condizione umana, storica. L’ombra ti definisce».

Uno sguardo che c’è già nelle foto da giovane, nei capolavori che raccontano le feste religiose.

«Non so chi diavolo le abbia fatte! Io avevo 17 anni, ero troppo ignorante. Con la mia mania di teorizzare tutto penso che nascessero da qualcosa che non riguardava me, ma una generazione. Erano gli anni 60. C’era una sorta di energia, di illusione di conservare un mondo che intuivamo sarebbe scomparso, come se avessimo voluto salvarlo, e volevamo riempire la cassapanca dei nostri ricordi per non dimenticarlo. Quando tornavamo, anche dopo poco tempo, non c’era più. Come se Ulisse andasse a fare il suo giro e quando torna non c’è più Itaca».

I suoi luoghi del cuore?

«Bagheria. A Villa Palagonia, la villa dei mostri, ancora mi commuovo. Così come Aspra, il primo mare. Ho una predilezione per la Sicilia greco ispanica che mi sembra più dolce, meno scioccamente presuntuosa di quella occidentale. Ho tanti luoghi del cuore a Milano, sono diventato altrettanto milanese che siciliano. E poi Ortigia, dove vado fuori stagione perché è diventata turisticissima».

I turisti vedono una bellezza che noi non sempre riconosciamo?

«I turisti vedono la traduzione di un depliant. Il turismo di massa è rumore, una forma di colonizzazione stupidificante. Non per niente adesso quando si vuole parlare della redenzione di un posto si dice “facciamone una Riviera”. Trump vuole trasformare la Palestina in una riviera, cioè trasformare la vita in turismo. A Siracusa o a Taormina i turisti comprano falso artigianato siciliano fatto altrove. Non ci sono più viaggiatori, ma turisti e terroristi. Il rumore riguarda tutto quanto, il mondo cambia, è quello che è. Si ammazzano le memorie, i luoghi. Ma senza memoria non c’è pensiero, non c’è futuro. Così è stato per un paio di migliaia di anni di civiltà occidentale. Poi ce ne sarà un’altra, magari sarà migliore».

Cosa le piace e cosa non sopporta della Sicilia?

«Non sopporto la presunzione, l’arroganza che si fa violenza, la prevaricazione. Quello che non vorrei mai cambiare è la musica delle conversazioni con gli amici, questa allegria che nasce da una costante consapevolezza della morte che in Sicilia però non è una cosa cupa. L’Isola è uno dei due posti al mondo, assieme al Messico, dove i morti sono una festa e portano i regali ai bambini. La morte è qualcosa di familiare e rende più allegra la visione del mondo. Questo non lo vorrei mai cambiare».