il caso
Carceri italiane tra suicidi, omicidi ed evasioni: numeri, volti e omissioni dell'anno nero dietro le sbarre
Viaggio nelle crepe del sistema penitenziario, tra allarmi dei sindacati e smentite istituzionali
Carcere, generico
Dal 2022 al 2025 almeno 319 detenuti si sono tolti la vita. In quell’elenco ci sono corde improvvisate con le lenzuola, lacci di scarpe trasformati in cappi, gas inalati dai fornelletti: dettagli che raccontano un punto di rottura, personale e collettivo. È l’apertura che firma Fanpage.it, ma dietro quelle parole c’è un dossier più ampio: una crisi che intreccia sovraffollamento, suicidi ai massimi storici, omicidi tra compagni di cella, evasioni in serie e il rimpallo di responsabilità tra Governo, Ministero della Giustizia e sindacati della Polizia penitenziaria.
Un numero che inchioda: il 2024, l’anno con più suicidi di sempre
Nel 2024 i suicidi in carcere sono stati almeno 91, il dato più alto mai registrato dai monitoraggi indipendenti: lo certificano Antigone e il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti. Una cifra che supera il precedente picco del 2022 (84) e che fa del 2024 “l’anno nero” per le morti volontarie dietro le sbarre. Il conteggio istituzionale del Garante nazionale si attesta a volte su numeri lievemente diversi (ad esempio 83), ma il trend resta inequivocabile e la divergenza è ricondotta ai diversi criteri di rilevazione. In parallelo, Sky TG24 riassume: tra il 2024 e i primi mesi del 2025, il totale dei suicidi ha già superato quota 120.
Dal 2022 al 2025 il conto complessivo supera la soglia delle tre centinaia. Sulla base dei dati consolidati per 2022 (84), 2023 (68) e 2024 (91), e degli aggiornamenti di fine anno sul 2025 che indicano almeno 73–74 casi al 6–30 novembre, si arriva a “almeno 319” suicidi nel quadriennio. È un numero in evoluzione fino al 31 dicembre, ma sufficiente a delineare un’emergenza strutturale.
Dietro i numeri, alcune costanti: l’età media attorno ai 40–42 anni; un’incidenza elevata tra persone straniere (fino al 45% dei casi rilevati da Antigone tra 2024 e primavera 2025); concentrazione degli episodi negli istituti più sovraffollati — come Napoli Poggioreale e Verona Montorio — dove spesso lo spazio minimo pro capite scende sotto i 3 m², soglia-chiave richiamata dalla Corte EDU.
Tre omicidi in cella, un pestaggio che diventa morte: quando la violenza esplode dentro
Il 2024 è stato segnato anche da omicidi tra detenuti. A Salerno, il 19 luglio 2024, un giovane ha ucciso il compagno di cella: per il sindacato SPP si trattava del “terzo omicidio in carcere dall’inizio dell’anno” dopo Napoli-Poggioreale (4 gennaio) e Milano-Opera (20 aprile). Episodi che hanno alimentato la denuncia di un sistema “alla deriva”, dove la presa dello Stato vacilla.
A Roma, nel carcere di Rebibbia, il caso di Francesco Valeriano ha assunto i tratti di una vicenda-simbolo: pestato in estate dentro la sezione, era finito in coma con gravi lesioni cerebrali; il 12 dicembre 2025 è morto dopo mesi di agonia. La notizia ha riacceso i riflettori sia sui livelli di violenza “intra moenia”, sia sulla capacità di prevenire e intervenire tempestivamente.
Non sono casi isolati. Le inchieste per tortura a carico di agenti della Polizia penitenziaria — si veda il video del pestaggio nel carcere di Reggio Emilia del 3 aprile 2024, con dieci indagati — hanno mostrato quanto fragile possa essere il confine tra uso legittimo della forza e abuso. Un confine che, se oltrepassato, brucia non solo la dignità delle vittime, ma anche la fiducia nell’istituzione-carcere.
Evasioni: dal “buco nel muro” alle fughe lampo, la toppa non regge più
L’estate 2025 ha fotografato un altro fronte aperto: le evasioni. A Napoli Poggioreale, tra il 18 e il 19 agosto, due detenuti sono scappati “con il classico sistema del buco nel muro” per poi calarsi con una corda; entrambi sono stati ripresi in tempi relativamente brevi, ma l’episodio ha fatto il giro del Paese. Pochi giorni dopo, a Palmi, un recluso in circuito di Alta Sicurezza — legato al clan Strisciuglio — è evaso scavalcando un muro di quattro metri, venendo poi rintracciato dalla Polizia penitenziaria. La UILPA ha parlato di “cinque evasioni in cinque giorni”.
Il sindacato SPP denuncia da tempo un’impennata di evasioni e tentativi: “+700% nei primi nove mesi del 2024”, con organici ridotti e turni estenuanti. Numeri che vanno maneggiati con prudenza — anche per la difficoltà di comparare le serie storiche — ma che restituiscono il senso di una tenuta operativa sempre più precaria.
Sovraffollamento cronico: il termometro che non scende mai
Se c’è un indicatore che attraversa ogni capitolo di questa crisi è l’affollamento. Al 30 aprile 2025, secondo Antigone, le persone detenute erano 62.445 a fronte di una capienza regolamentare di circa 51.280 posti, che si riducono a poco più di 46.700 se si escludono i posti inagibili: l’indice reale sale così oltre il 133–134%. Solo 36 istituti non risultano sovraffollati, mentre 58 superano il 150%, con punte oltre il 200% in luoghi come Milano San Vittore.
Il Ministero della Giustizia ha replicato più volte che “nessuno ha fatto quanto questo governo” su assunzioni e investimenti, rivendicando “oltre 10.000 unità finanziate in due anni e mezzo” e leggendo i 46 suicidi al 31 luglio 2025 (dato DAP, rilevato dal Garante) come segnale di “trend in calo” rispetto al 2024. Anche qui, però, gli aggiornamenti autunnali riportano la cifra a quota 70+ a fine anno, confermando che il fenomeno non si può dichiarare rientrato. La fotografia di Antigone e di altri osservatori indipendenti resta dunque quella di un sistema in iperventilazione.
Sindacati al contrattacco, politica in trincea: il caso Delmastro
Nel mezzo, lo scontro politico-sindacale. Il SPP di Aldo Di Giacomo parla di carceri diventate “terra di nessuno” e chiede le dimissioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro: un pressing rilanciato anche in queste settimane da più testate, dopo una raffica di evasioni, aggressioni e omicidi. La Stampa sintetizza l’accusa: “dalle carceri italiane si fugge come in un gioco di ragazzi” e “qualcuno deve rispondere”.
Il nodo politico è aggravato dal profilo pubblico del sottosegretario. A febbraio 2025, Delmastro è stato condannato in primo grado a otto mesi per rivelazione di segreto d’ufficio (vicenda “Cospito”), annunciando l’appello e rifiutando le dimissioni. A fine 2024 avevano fatto rumore anche certe sue frasi di tono marcatamente punitivo pronunciate in un evento della Polizia penitenziaria, con reazioni indignate delle opposizioni. Il governo, però, lo ha confermato al suo posto.
Cosa rispondono le istituzioni
Il Garante nazionale ha precisato ad agosto 2025 che, al 31 luglio, i suicidi risultavano inferiori allo stesso periodo del 2024 (46 contro 58), invitando a evitare allarmismi “statistici” fuori contesto. Il punto, però, non è solo l’oscillazione di un trimestre: gli indicatori di medio periodo restano gravi, al pari della percezione dentro gli istituti. La linea dura rivendicata dal sottosegretario Delmastro (“no agli svuota-carceri”) appare in tensione con l’urgenza di un piano di deflazione della popolazione detenuta e di potenziamento psichiatrico-sanitario. In Aula e nelle interviste, il Governo rivendica assunzioni e risorse straordinarie; per i sindacati, invece, la coperta è sempre troppo corta e i numeri delle aggressioni agli agenti restano ingestibili.
Il punto d’equilibrio che manca
“Non lasciamo respirare chi è dietro il vetro: per me è una gioia”, disse nel 2024 — scatenando la bufera — il sottosegretario Delmastro parlando dei mezzi del GOM. Una frase che molti lessero come la fotografia di un clima: quello di un sistema penitenziario dove il principio rieducativo fa fatica a farsi spazio tra emergenze e securitarismo. A fine 2025, con suicidi ancora numerosi, omicidi tra detenuti e evasioni che si ripetono, la cornice non è cambiata abbastanza. Di certo, però, non bastano gli applausi o gli strali: servono scelte misurabili — in posti, persone, metri quadri, turni e protocolli — e un’assunzione di responsabilità politica coerente con i fatti, non con gli slogan.
In controluce, restano i nomi. Quelli in fondo ai registri e alle statistiche. Quelli come Francesco Valeriano, arrivato a Rebibbia la scorsa primavera e uscito, mesi dopo, su una barella. È su quei nomi — non sui comunicati — che si misura lo stato di salute di una democrazia.