×

Regione

Ars, manovrina (e maggioranza) a pezzi. Schifani e Galvagno ai ferri corti: è crisi

Bocciate norme-chiave, asse FdI-Mpa con le opposizioni. «Stacchi la spina». Ma il governatore: «Io vado avanti»

Mario Barresi, Accursio Sabella

10 Ottobre 2025, 00:34

Galvagno e Schifani selfie

«Non azzero un bel nulla. Sono gli altri che, se vogliono, devono assumere decisioni conseguenti». Renato Schifani, alla fine del giovedì nero del suo governo, è a pezzi. Come la maggioranza, che ha maciullato la manovra quater. «Vado avanti, penso solo a cambiare la Sicilia», smozzica il governatore. Che ha già in mente di convocare un vertice di maggioranza per lunedì, quando «ognuno dovrà assumersi la propria responsabilità». A partire da Gaetano Galvagno, che «sembra essere impazzito: non è la persona che credevo che fosse», si sfoga con i suoi fedelissimi Schifani. Convinto, sostiene chi lo ha sentito più volte nel corso della Waterloo del governo di centrodestra, che il presidente meloniano dell’Ars sia «ancora molto provato per le sue vicende giudiziarie, dalle quali io l’ho sempre difeso», fino al punto di aver «perso la lucidità per rivestire il suo ruolo».

Eppure, fra gli alleati più fedeli, c’è chi pensa che quella di Galvagno sia stata «una vendetta pianificata» e non un colpo di testa. «Te la farò pagare», avrebbe detto il golden boy meloniano, davanti a testimoni, a Luca Sammartino, “reo” a suo dire di aver occupato una casella sanitaria (il direttore sanitario dell’Asp di Catania) assegnata a FdI. Ma c’è il precedente, più pesante, della conferma di Salvatore Iacolino a super dirigente della Sanità, rospo ben più indigesto a FdI. Nulla, dunque, succede per caso. Perché c’è chi rivela di un “controvertice” mattutino, negli uffici di Torre Pisana, in cui il presidente dell’Ars avrebbe incontrato esponenti di Mpa e Sud chiama Nord. Casualmente i due gruppi rimasti in aula dopo il diktat di Schifani a Forza Italia, Lega e Dc: «Abbandonate l’aula, lasciamoli da soli».

Dall’altro fronte l’interpretazione più autentica sta tutta nella frase colta dall’impertinente microfono dello scranno più alto di Sala d’Ercole. «Un massacro senza motivo, bastava ritirare la manovra», sentenzia Galvagno. Che, evidentemente, si sente coperto dai vertici nazionali del suo partito. Luca Sbardella, che non sente Schifani «ormai da diversi giorni» annota che «i franchi tiratori sono spariti quando in aula sono rimasti solo i nostri». È chiaro che a quel punto gli equilibri erano cambiati e i meloniani non avevano più alcun interesse a votare contro le norme del governo (per affossarle bastavano le opposizioni), ma il commissario regionale di FdI rivendica che «noi, dall’inizio della legislatura, siamo sempre stati leali: i traditori li cerchino altrove». Ma il proconsole meloniano nell’Isola non si esime da quella che appare come una stoccata all’ex presidente del Senato: «Berlusconi ci ha insegnato che per governare bisogna sapersi fare convessi e concavi. Evidentemente non tutti hanno imparato la lezione del nostro maestro...».

Il risultato finale, però, è una tripla crisi. Una crisi politica, una crisi di governo, una crisi istituzionale. La prima, rappresentata appunto dalla plateale, plastica spaccatura dei partiti di maggioranza. Alcuni dentro, altri fuori. I primi, è il caso del capogruppo di Fdi, Giorgio Assenza, a rimproverare ai secondi «un Aventino senza il quale, forse, avremmo salvato altre norme». O è il caso di Giuseppe Lombardo: «Siamo rimasti in Aula nell’interesse dei siciliani».

Ma la crisi di governo e in particolare la crisi che investe il governatore, è nella natura, nel colore delle norme bocciate. Norme per le quali, in più di un’occasione, Schifani aveva persino assunto un impegno pubblico. È il caso dei fondi per l’editoria, o del finanziamento del film su Biagio Conte. Così caro al governatore da spingerlo a una lettera amareggiata a don Pino Vitrano, guida della Missione “Speranza e carità”: «Un’occasione perduta», si è dispiaciuto. Ed è andata giù, sotto i colpi di opposizione e franchi tiratori, la misura fiore all’occhiello di queste variazioni che tanto somigliavano a una finanziaria: è quella sul South working. In questo caso, il siluro degli scontenti del centrodestra è stato lanciato dritto verso Alessandro Dagnino, che si era appellato ai deputati a pochi istanti dal voto: «Non chiedete il voto segreto, questa è una norma per i siciliani». Appello caduto nel vuoto. Nel frattempo, però, lombardiani e meloniani incassavano, col tacito sostegno dell’opposizione che ha giocato di sponda per accentuare le spaccature, i finanziamenti per il Maas e per l’Ast (cari agli autonomisti) o quelli per gli scavi archeologici e l’Ipab di Paternò. Ed è proprio al momento di questa votazione su una norma che consentirà all’ente di sanare i propri debiti che si manifesta, in un dettaglio nemmeno così impercettibile, la crisi istituzionale. Di fronte alla richiesta formale di esprimere un parere su quella norma difesa apertamente dal paternese Galvagno, il governo rappresentato da Dagnino non ha voluto dare un «parere favorevole», ma ha preferito «rimettersi all’aula». La rottura tra i due palazzi del potere politico siciliano è tutta in quel dettaglio. E non lascia presagire tempi facili per il centrodestra di Sicilia. Che si ricompatta al momento del voto finale, dopo la bocciatura di 17 articoli (un terzo del ddl), quando Fi, Lega e Dc tornano in Aula, «anche perché - confida un lealista - se ci facevamo votare la manovra dalle opposizioni era la certificazione che Schifani doveva dimettersi».

Intanto, gode l’opposizione. Ismaele La Vardera prevede già la defenestrazione di Dagnino (ritenuto responsabile molto più di Sammartino che ieri ha fatto il suo triste esordio da assessore delegato ai rapporti col parlamento), il sacrificio necessario per ricompattare i partiti: «Ma questo governo è al capolinea e oggi si è dimostrato che c’è un’alternativa». Il capogruppo del Pd Michele Catanzaro parla di «maggioranza a pezzi» e di «clima da guerriglia», mentre l’omologo del M5S Antonio De Luca invita il presidente della Regione a «staccare la spina al governo». Ma Schifani ha già deciso, altro che staccare la spina: «Non azzero un bel nulla».