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LA KERMESSE

Atreju, l’ora di Giorgia: il “pantheon al contrario” e la sinistra nel mirino nel comizio–manifesto

La premier rilegge i rapporti di forza, sfida gli avversari per nome e alza il volume della campagna permanente

Alfredo Zermo

14 Dicembre 2025, 16:02

Atreju, l’ora di Giorgia: il “pantheon al contrario” e la sinistra nel mirino

“Sto a morì”, scherza dal palco, eppure la voce non trema. Sotto l’ombra massiccia di Castel Sant’Angelo, tra luminarie natalizie e cori scanditi, Giorgia Meloni tiene inchiodata la platea per 61 minuti: un monologo serrato che chiude Atreju come un comizio–manifesto, più interno che estero, più identitario che istituzionale. Pubblico stipato, “tutto esaurito” in sala già di prima mattina, con la premier che entra tra applausi e il coro “Giorgia, Giorgia”, si siede in prima fila, sale sul palco e compone la sua scenografia ideale: un “pantheon al contrario” in cui colloca gli avversari, chiamati per nome, per costruire la contro–narrazione del governo. È il colpo di teatro con cui rivendica la cifra della sua leadership e prova a dettare l’agenda del giorno in cui, a pochi chilometri, l’Assemblea nazionale del Partito democratico si stringe attorno a Elly Schlein. È il finale della ventiseiesima edizione della kermesse della destra, aperta il 6 dicembre e chiusa il 14 dicembre 2025 nei giardini del mausoleo di Adriano trasformati in “villaggio” con pista di pattinaggio e mercato di Natale. Titolo: “Sei diventata forte – L’Italia a testa alta”. E il messaggio, altrettanto esplicito.

Il dispositivo retorico: un “pantheon al contrario”

Il cuore del discorso sta tutto lì: una spina dorsale retorica basata su un elenco ragionato di bersagli e simboli. Meloni realizza quella che definisce un “galleria rovesciata” dei riferimenti della sinistra: in prima fila Elly Schlein, evocata anche per la scelta di non salire sul palco di Atreju; quindi Ilaria Salis, Francesca Albanese, Greta Thunberg, e Maurizio Landini. Non semplici citazioni, ma tasselli di un mosaico che deve dimostrare – nelle parole della premier – un filo rosso di “ipocrisie” e “doppi standard” degli avversari. A ogni nome, un capitolo: i scioperi e le uscite pubbliche del leader della CGIL, le posizioni dell’inviata Onu per i Territori palestinesi, l’attivismo climatico della giovane svedese, la vicenda dell’eurodeputata milanese, fino al j’accuse sullo stato del “campo largo”.

Non mancano i colpi a effetto: “di’ qualcosa contro la sinistra”, citazione morettiana rovesciata per presentare il contrasto politico come cifra di governo; il riferimento al ‘68 e allo “spirito che ancora pervade un pezzo di Paese”; e, soprattutto, la denuncia del presunto “servilismo ai poteri esterni”: “Dai rapporti del PCI con Mosca, a quelli del PD con Bruxelles, Parigi e Berlino, passando per l’America quando governano i democratici”. Una genealogia polemica che pretende di spiegare, per antitesi, la postura “sovrana” dell’esecutivo.

La cornice scenica: il Villaggio e i pannelli identitari

La narrazione è incastonata in un set che è già messaggio. L’edizione numero 26 di Atreju ha moltiplicato i richiami pop: l’albero, i presepi, la musica, i talk con sportivi e volti tv, la pista di ghiaccio. Dentro questa grazia natalizia spiccano due installazioni politiche: il “bullometro”, il tabellone che assegna voti alle “parole d’odio” attribuite alla sinistra e ai critici del governo; e il pantheon dell’“egemonia dei valori”, un lungo pannello con figure emblematiche – da Guglielmo Marconi a Pier Paolo Pasolini, da Nicola Calipari a Sammy Basso – che mette in vetrina ciò che la destra definisce la propria tradizione. Di fronte a questa galleria, il “pantheon al contrario” declamato da Meloni dal podio funziona come controcampo: un catalogo dei non–modelli. L’operazione – nei fatti – salda spettacolo e propaganda, trasformando una festa di partito in un “palcoscenico nazionale”.

Il tempo del discorso: 61 minuti di politica interna

“Poca politica estera, molta interna”: è la scelta consapevole. La premier passa in rassegna regionali, scioperi, riforme e toni pubblici. Sullo sfondo, la campagna permanente verso i prossimi appuntamenti elettorali e il referendum che il centrodestra vuole legare alle riforme istituzionali. Il lessico è quello muscolare e identitario già sperimentato: rivendicazioni, ironie, sfide. La leader di Fratelli d’Italia chiude al suono dell’Inno di Mameli e, poco dopo, di “A mano a mano” di Rino Gaetano. Un copione calibrato per il pubblico di casa e per il circuito mediatico che, nel frattempo, rilancia gli stralci più polemici.

Il contrappunto: l’assenza di Schlein e la “sfida a distanza”

La casella vuota è la più ingombrante. Elly Schlein non si presenta. Meloni ne fa elemento retorico (“non è venuta per non confrontarsi con Conte”) e segno plastico di un campo avverso ancora non federato. Il giorno della chiusura di Atreju, i dem si riuniscono all’Auditorium Antonianum per l’assemblea nazionale: i riformisti si dicono pronti a “dare energia” alla segretaria. A Castel Sant’Angelo, invece, sfilano – nei panel della vigilia – i leader dell’opposizione che hanno scelto di esserci: Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Carlo Calenda, Angelo Bonelli. Una “sfida a distanza” che racconta due regie narrative parallele e il medesimo obiettivo: occupare il centro della scena.

Atreju 2025: cos’è diventato e perché conta

L’evento nato nel 1998 come festa della gioventù della destra è ormai una piattaforma di legittimazione e reclutamento simbolico. Alla edizione 2025 gli organizzatori rivendicano oltre 400 ospiti e 81 dibattiti in nove giorni, un format che mescola politica, cultura pop, talk televisivo e intrattenimento familiare. Anche la comunicazione è pulsante – tra l’account ufficiale, la radio di partito, le gag – e mira a costruire l’immagine di una destra mainstream, capace di “ospitare tutti” e di dettare narrazioni. È in questo alveo che la premier imposta la sua “lezione” finale: massimizzare la visibilità e incorniciare gli avversari.

Il bersaglio Landini e il fronte lavoro

Tra i passaggi più battuti, l’attacco a Maurizio Landini. Nel discorso, Meloni lo lega ai scioperi dei mesi scorsi e al “silenzio” su Stellantis, chiamando in causa la vendita di Gedi da parte dell’azionista dell’auto e accusando il sindacato di “severità a intermittenza”. È un frame che il centrodestra utilizza per mantenere sotto schiaffo la CGIL e per ribadire l’immagine di una sinistra “corporativa” quando serve e “distratta” quando tocca i grandi gruppi. Per il governo, questa contrapposizione è politicamente redditizia sul medio periodo: sollecita l’elettorato produttivo, parla a piccole e medie imprese, punta a dividere il fronte sindacale.

La sequenza Salis–Albanese–Thunberg: i tre dossier che scaldano il Paese

Il capitolo Ilaria Salis resta sensibile: simbolo di garanzie e diritti per la sinistra, emblema opposto per la destra tra legalità e rapporti con l’Europa. Nominarla significa rievocare mesi di polemiche.

Su Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sui Territori palestinesi, Meloni polarizza un tema – Israele–Palestina – in cui il governo rivendica la sua linea di sostegno a Tel Aviv e condanna l’uso disinvolto dell’accusa di “genocidio”. Anche qui: politica estera piegata a identità interna.

Con Greta Thunberg si torna alla battaglia sul clima e alla critica dell’ambientalismo radicale che, nel linguaggio della destra, minaccerebbe crescita e lavoro. La citazione serve a ribadire la postura del governo su transizione e green deal: pragmatismo rivendicato contro “massimalismi”.

I “poteri esterni”: la linea d’accusa storicizzata

Tra le righe più commentate, la genealogia dei “tutori” della sinistra: Mosca per il PCI del Novecento, poi Bruxelles, Parigi, Berlino e l’America “solo quando governano i democratici”. È un frame storico–politico che Meloni usa da anni e che oggi riattualizza per contrasto con la “sovranità” rivendicata dall’esecutivo. L’obiettivo è duplice: ridurre gli avversari alla caricatura di una subalternità culturale e riaffermare la propria autonomia in sede europea e atlantica. Una tesi forte, che al tempo stesso apre il fianco alle repliche: il governo, nella pratica, cerca e ottiene sponde a Bruxelles su numerosi dossier, a partire dalla gestione migratoria e dal nuovo Patto Ue su migrazione e asilo in arrivo nel 2026.

Il dossier Albania, la clessidra e le responsabilità

Nell’elenco dei totem della contrapposizione c’è anche il “modello Albania” per la gestione dei migranti: centri oltre Adriatico, intese bilaterali e un impianto che, tra ricorsi e pronunce giudiziarie, ha camminato finora a singhiozzo. Meloni ha ribadito nelle scorse settimane la volontà di andare avanti: “Determinati ad attivarlo, abbiamo perso due anni, ma funzionerà quando sarà operativo il nuovo Patto Ue”. Le opposizioni accusano: “fallimento costoso”, “centri vuoti”, “modello illegale”. La posta è alta: se il quadro europeo cambierà davvero, il governo potrà rivendicare coerenza; se invece i vincoli giuridici resteranno un freno, il “modello” rischia di restare un simbolo più che una politica.

Il “bullometro” e la grammatica della polemica

L’oggetto scenico più discusso – il bullometro – porta in scena la polemica sul linguaggio d’odio: un tabellone che assegna punteggi a frasi e invettive di personalità critiche verso il governo (da Maurizio Landini a Francesca Albanese, con voti separati tra “originalità” e “livore”). Anche qui, la strategia è evidente: ribaltare l’accusa, presentando la destra come vittima del “livore” altrui e giudice ironico di un’egemonia culturale che – è la tesi organizzativa – continuerebbe a pervadere informazione, accademia, mondo dello spettacolo. Il contrappeso è il pantheon dei valori: un catalogo che miscela tradizione nazionale e eroismi civili.

Il punto politico

Nel frattempo, l’edizione “più lunga di sempre” della festa di Fratelli d’Italia segna un punto politico: Atreju è diventato il luogo dove la destra si mostra istituzionale e popolare insieme, dove la premier prova a raccontare l’Italia come comunità e la sinistra come avversario sistemico e riconoscibile. È la grammatica di una leadership che non abdica al conflitto e che, anzi, ne fa leva per occupare il centro della scena.

Oltre l’applauso

Alla fine, restano le immagini: la madre in platea, l’ex compagno Andrea Giambruno che appare e scompare tra i corridoi, il pubblico in coda per un selfie con il cartonato della premier, la colonna sonora patriottica che sfuma nella canzone pop. Restano i nomi propri scanditi come in un rosario laico, e la sensazione di aver assistito all’ennesimo atto del romanzo politico di Giorgia Meloni: raccontare l’Italia in bianco e nero, trasformare i contrasti in trampolino, gli avversari in figuranti del proprio racconto. L’effetto, nel giorno 14 della kermesse, è quello voluto: la destra chiude in casa sua la settimana politica, l’opposizione rincorre e replica in altra sede. Il resto – la misura del consenso, la traduzione in atti – lo diranno i prossimi mesi. Intanto la fotografia è nitida: una leader che occupa la scena con un tempo–discorso perfettamente orchestrato, una regia che usa il Natale come cornice rassicurante per un messaggio senza sconti, e un Paese diviso sul merito ma unito, stavolta, nell’attenzione.